Ipercolesterolemia familiare omozigote: troppe disparità di trattamento a livello globale

La diagnosi avviene in media a 12 anni di età: troppo tardi per evitare problemi cardiovascolari. E solo il 3% dei pazienti viene identificato

In tutto il mondo, ma soprattutto nei Paesi meno ricchi, l’ipercolesterolemia familiare omozigote (HoFH) è mal gestita, con effetti molto negativi per la salute dei pazienti. È questo il messaggio più importante di uno studio condotto dagli esperti del registro Homozygous Familial Hypercholesterolaemia International Clinical Collaboration (HICC) e appena pubblicato sulla rivista The Lancet.

Secondo gli autori è necessario promuovere un cambiamento nelle politiche sanitarie e migliorare l’assistenza per questi pazienti: quella omozigote, che colpisce circa una persona su 300.000, è infatti la forma più grave di ipercolesterolemia familiare. Le persone affette hanno fin dalla nascita livelli estremamente elevati di colesterolo LDL (lipoproteine a bassa densità) nel sangue: la diagnosi precoce è quindi essenziale per evitare qualsiasi ritardo nell’inizio della terapia ipolipemizzante e per ridurre le complicanze cardiovascolari. Lo standard di cura è rappresentato dall’aferesi delle lipoproteine e da farmaci come le statine e l’ezetimibe; in aggiunta a questi trattamenti sono oggi disponibili nuove molecole come gli inibitori di PCSK9, la lomitapide e l’evinacumab, che abbassano ulteriormente i livelli di colesterolo LDL.

Il registro HICC, in parte finanziato dall’FH Studies Collaboration della European Atherosclerosis Society (EAS-FHSC), rappresenta l’unica coorte internazionale di pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote ed è stato istituito per conoscere le loro caratteristiche e le cure che ricevono a livello globale. Lo studio di coorte retrospettivo pubblicato su The Lancet si è basato sui dati di 751 pazienti provenienti da 38 nazioni, quasi la metà dei quali (il 47%) proveniva da 18 Paesi a reddito non elevato. La diagnosi della malattia, nel mondo, avviene in media a 12 anni, e sorprendentemente è più precoce nelle nazioni più povere (10 anni) rispetto a quelle più ricche (16 anni). Ciò nonostante, i pazienti nelle regioni a basso reddito avevano livelli più elevati di colesterolo LDL non trattato (15,8 contro 13,5 mmol/L) e quindi, probabilmente, un quadro clinico più grave.

La gestione della malattia, in ogni caso, si è rivelata tutt’altro che ottimale in entrambi i gruppi. Tuttavia, i pazienti nei Paesi più poveri avevano una prognosi peggiore: avevano meno probabilità di ricevere una terapia ipolipemizzante combinata (il 67% contro l’85% nei Paesi più ricchi), un inibitore di PCSK9 (il 17% contro il 26%) o la lomitapide; solo il 3% di questi pazienti, inoltre, ha raggiunto il livello raccomandato di colesterolo LDL (meno di 1,8 e meno di 2,6 mmol/L per i pazienti con e senza malattie cardiovascolari), rispetto al 21% nei Paesi più ricchi. I pazienti nei Paesi a basso reddito hanno anche sperimentato un primo evento cardiovascolare, come un infarto, più di un decennio prima rispetto a quelli dei Paesi ad alto reddito: l’età media di insorgenza era di 24,5 anni contro 37 anni.

I risultati dello studio sono stati discussi dalla comunità dei pazienti con ipercolesterolemia familiare nel corso di un webinar organizzato in occasione della Giornata Mondiale delle Malattie Rare da FH Europe, la federazione europea che riunisce 28 associazioni di 27 Paesi. A presentare i dati è stato il presidente della European Atherosclerosis Society (EAS), il prof. Kausik K. Ray dell’Imperial College London, coautore dello studio. All’evento, moderato dalla presidente di FH Europe Magdalena Daccord, hanno partecipato anche un giovane paziente, Thanos Pallidis (LDL Greece), la madre di una ragazza affetta, Michelle Watts (autrice del blog Avery’s Fight), Nicola Bedlington, senior policy advisor di FH Europe e il dr. Marius Geanta, consigliere di FH Europe.

“I messaggi chiave di questo report sono: più screening, screening più tempestivi e trattamenti combinati più precoci, fondamentali per la salute pubblica”, ha spiegato il prof. Kausik K. Ray. “Dobbiamo trovare il restante 97% dei casi che rimangono non rilevati e quindi non trattati, i quali avranno delle conseguenze negative sulla salute che potrebbero essere evitate. È essenziale ridurre l’età della diagnosi dalla seconda decade di vita all’inizio della prima decade. L’equità di accesso alle nuove terapie a livello globale è essenziale per prevenire le conseguenze catastrofiche dell’HoFH”.

“Questi nuovi risultati del registro HICC mostrano che c’è molto da fare per migliorare l’assistenza ai pazienti con HoFH. Circa un paziente su 10 in tutto il mondo aveva già avuto un evento cardiovascolare al momento della diagnosi: dobbiamo identificare i pazienti molto prima”, ha aggiunto il professor Frederick J. Raal del comitato direttivo del registro HICC (Università del Witwatersrand di Johannesburg, Sud Africa). “Per migliorare la consapevolezza è essenziale la formazione. In secondo luogo, abbiamo ancora molta strada da fare per garantire che tutti i pazienti, in particolare quelli nei Paesi meno ricchi, abbiano accesso ai nuovi trattamenti, altamente efficaci nell’abbassare il colesterolo LDL in aggiunta alla terapia con le statine. Questo è fondamentale se vogliamo ritardare o addirittura prevenire complicazioni cardiovascolari come l’infarto”.

“L’ipercolesterolemia familiare omozigote è una condizione rara, straordinariamente difficile da trattare, e senza un’identificazione precoce e cure esperte, porta a problemi cardiaci sin dall’infanzia e, spesso, alla morte entro i trent’anni di età”, prosegue il dr. Sam Gidding, consigliere e presidente del comitato scientifico di FH Europe. “Nuovi farmaci sono all’orizzonte, ma la prognosi rimane infausta. Questo studio mostra che in tutto il mondo sono necessari sforzi molto maggiori per aiutare le persone colpite”.

Anche in Italia i pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare omozigote affrontano queste difficoltà, e a dare loro sostegno c’è da più di vent’anni l’Associazione Nazionale Ipercolesterolemia Familiare (ANIF), che fa parte della federazione FH Europe. “Questi numeri rendono l’idea di come la lotta alle malattie rare sia un problema sovranazionale, che investe l’intero pianeta, e su questo fronte è necessario un impegno sempre maggiore da parte dei governi”, sottolinea il presidente di ANIF, il Colonnello dell’Esercito Domenico Della Gatta. “Abbiamo celebrato la Giornata Mondiale delle Malattie Rare con il pensiero rivolto ai pazienti e alle famiglie oppresse da questo problema, che riguarda circa 300 milioni di persone in tutto il mondo, 30 milioni in Europa e 2 milioni in Italia. Non in tutte le loro case brilla una luce di speranza, e dobbiamo fare di tutto per incrementare la ricerca scientifica e riportare il malato al centro dell’attenzione. Solo così, immaginando una vera e propria deontologia in difesa del paziente, potremo aiutare i nostri fratelli ammalati a sorridere di nuovo”, conclude Della Gatta. “Per dare l’idea di cosa significhi vivere con una patologia come l’ipercolesterolemia familiare omozigote, abbiamo scelto di riproporre all’attenzione generale l’intervista fatta dall’Osservatorio Malattie Rare a uno dei nostri associati, Andrei, che è emblematica per capire il complesso percorso da affrontare ogni giorno”.