Beta-talassemia, in una “Masterclass sulla gestione delle malattie rare”

Strutturato in quattro moduli, si è tenuta di recente in modalità virtuale una “Masterclass in Management of Rare Diseases”. Il corso – organizzato da Edra, editore leader nella formazione medico-scientifica – è indirizzato ai futuri specialisti coinvolti nei circa 200 Centri per malattie rare distribuiti nel territorio nazionale e si pone tre obiettivi: garantire la conoscenza manageriale degli aspetti peculiari della presa in carico di un paziente con malattia rara; fornire una formazione avanzata e specialistica nella prevenzione, nella diagnostica, nella presa in carico e nella gestione delle malattie rare; aiutare gli specialisti nell’iter di ottimizzazione dell’assistenza spesso multidisciplinare al paziente. Tra gli argomenti presi in esame, la beta-talassemia è stata discussa sotto il profilo clinico e gestionale/organizzativo da Raffaella Origa, Ricercatrice presso l’Università di Cagliari e Dirigente Medico presso l’Ospedale Pediatrico Microcitemico ‘A. Cao’ nella stessa città. «Pur essendo una malattia genetica, la beta-talassemia interessa ormai per la maggior parte adulti e grandi adulti grazie ai progressi che sono stati fatti nella gestione della patologia» ricorda la specialista. «Sono interessati la maggior parte degli organi: dal cuore al fegato e agli organi endocrini, ma anche il rene e le ossa. Questo sia per la patologia di per sé sia per le terapie, in quanto la terapia trasfusionale (salvavita) determina a sua volta un accumulo di ferro che è tossico per organi come il cuore, il fegato e le ghiandole endocrine; per trattare l’accumulo di ferro, poi, si utilizzano farmaci che possono essere a loro volta tossici per alcuni organi. Inoltre, ci sono altre manifestazioni come, per esempio, la calcolosi renale o la calcolosi biliare o l’osteoporosi, che sono comunque complicanze particolarmente frequenti nei pazienti al di là del ferro e della terapia ferrochelante». Quindi, sottolinea Origa, una patologia così complessa può essere seguita soltanto da un team multidisciplinare, ovvero da una rete di professionisti al cui centro si trova l’esperto di talassemia e che vede intorno al paziente ruotare tutti gli specialisti d’organo guidati dal team leader. Nel corso delle sessioni si è analizzato in particolare il tema dei PDTA e del monitoraggio dei percorsi. «Una delle problematiche a livello italiano nella gestione dei pazienti affetti da beta-talassemia risiede nel fatto che questi sono seguiti da centri con caratteristiche molto differenti: una grossa quota di pazienti afferisce a centri trasfusionali che spesso seguono pochi pazienti, a fronte di pochi centri che seguono invece molti pazienti. Ne consegue che il PDTA esiste in diversi centri che sono soprattutto grandi strutture mentre non esiste laddove i pazienti non vengono seguiti in maniera dedicata, ovvero in reparti che si occupano prevalentemente di altre patologie». Nel caso specifico, Origa segnala che il PDTA, esistente nel Centro di Cagliari in cui opera e in altre parti di Italia, rappresenta uno strumento fondamentale soprattutto perché facilita l’interazione e i rapporti tra gli specialisti e formalizza i rapporti tra di loro, fatto assolutamente non marginale in quanto rende più semplici i percorsi del paziente mettendolo davvero al centro delle cure. «Gli specialisti presenti nel PDTA, come emerso nella Masterclass, sono pressoché gli stessi in tutti i centri» riprende Origa «pur essendoci ovviamente alcuni limiti dovuti al fatto che la talassemia è una patologia talmente complessa che non esiste PDTA che contempli davvero tutti i percorsi. Del resto» aggiunge «l’emergenza Covid ha reso più complicato seguire i percorsi, anche dei pazienti non talassemici, peraltro. Infine, può accadere che in una situazione dinamica di aziende che cambiano, magari per scorporamento da un polo ospedaliero all’altro, il PDTA di un paziente – strettamente personalizzato – debba essere ripensato dagli specialisti operanti nel nuovo punto di riferimento. A parte tutti i limiti del caso» puntualizza Origa «il PDTA resta fondamentale anche perché è motivo di confronto tra professionisti di una stessa struttura per ripensare al proprio modo di operare quotidiano e rivederlo alla luce delle ultime evidenze». Ancora più variegato il discorso relativo alla transizione dall’assistenza pediatrica a quella in età adulta. «Non si può fare un discorso generale per quanto riguarda la talassemia» precisa la specialista. «Nella maggior parte dei grossi centri italiani, incluso il nostro, il paziente viene seguito per tutta la sua vita, senza distinzione tra età pediatrica-fase di transizione-soggetto adulto. Per esempio, a Cagliari seguiamo pazienti di età compresa da zero a settant’anni e riteniamo che l’esperto in talassemia sia in grado di seguire il paziente dall’età pediatrica all’età adulta perché lo conosce profondamente, creando un legame forte e divenendone un punto di riferimento». Vi sono invece centri esclusivamente pediatrici e altri che seguono pazienti soltanto adulti. «È chiaro che per poter seguire pazienti di età così diversa occorre essere affiancati da una rete di specialisti, tra i quali i medici internisti nel caso il team leader sia un pediatra». Quando bambini e adulti sono seguiti nella stessa struttura, aggiunge Origa, ci sarebbe anche bisogno di un’organizzazione interna che tuteli le differenze delle diverse età. «Il fatto che lo stesso centro ospiti insieme bambini e adulti può essere un fatto positivo per i genitori dei bambini talassemici, i quali vedono appunto che si può diventare adulti o genitori e ci si può realizzare dal punto di vista lavorativo e affettivo. D’altra parte, molti pazienti adulti provano disagio nel sentire i bambini piangere perché probabilmente rivivono i loro traumi infantili. Quindi è giusto che ci siano anche nell’ambito della stessa struttura percorsi separati». Passando al concetto di ‘leadership’, «abbiamo discusso delle diverse modalità di gestione dei conflitti nell’ambiente lavorativo – quindi tra colleghi, personale medico infermieristico e tutti gli attori del reparto dalla talassemia – ritenendo migliore quella collaborativa ma considerando che tutte le altre strategie compreso l’evitamento possono essere necessarie in determinate situazioni». In riferimento al paziente, un concetto sempre più rilevante è quello invece di empowerment, «per cui il paziente non subisce la patologia, le cure, i pareri medici e la terapia che gli viene proposta ma diventa un protagonista attivo e consapevole della sua malattia, stabilisce un’alleanza terapeutica con il medico e per questo motivo dovrebbe avere un’aderenza totale al trattamento». In realtà, specifica Origa, esiste tuttora un rilevante problema di compliance alla terapia, in particolare quella chelante del ferro, che se carente può dare complicanze molto gravi come lo scompenso cardiaco. «Nella Masterclass abbiamo quindi cercato di indagare le motivazioni della mancata adesione alle terapie e agli esami proposti nella talassemia. Il punto è che, come in tutte le grandi patologie croniche, l’adesione alla terapia deve essere costante e ottimale per tutta la vita, mentre sono sempre possibili momenti di stanchezza e défaillance, spesso correlati alla realtà familiare, sociale o ad altre difficoltà, che possono presentare il conto in termini di sviluppo di complicanze anche pericolose per la vita. Ci siamo soffermati dunque a parlare soprattutto delle nostre esperienze e degli approcci che riteniamo migliori per la gestione del paziente che manifesta problemi di compliance».